lunedì 6 luglio 2009

Emilio Isgrò "Teoria della cancellatura"


Questa è la cancellatura. Una macchia che copre una parola, la separa dal mondo, la libera.
Quale è questa parola? Quale è il sinonimo? Quale la lingua?
Nessuno può dirlo. Nessuno può saperlo.
Io conoscevo questa parola, ma l’ho dimenticata.
Sono più di vent’anni – quasi venticinque, ormai – che pratico la cancellatura e la frequento con la passione di un monaco.
Perciò rimasi male, anzi malissimo, l’estate scorsa, quando i giornali di tutto il mondo riportarono la notizia che un cervello elettronico aveva cancellato per sempre, e per errore, il discorso di investitura che il candidato Mike Dukakis si preparava a leggere alla Convenzione democratica di Atlanta.
Perché il candidato riuscisse a parlare – informarono le agenzie – fu necessario ricostruire il testo in fretta e furia, sulla scorta di briciole di carta e appunti a matita freneticamente recuperati nel cesto anonimo dei rifiuti.
Ma non fu questo a impressionarmi. Preferii domandarmi, piuttosto, se era davvero possibile e lecito scambiare la cancellatura per un prodigio puramente e semplicemente elettronico, quasi si trattasse del Dna, della Tac o di un modestissimo volo su Marte.
Qui, per esempio, in questa immagine, il gioco si fa più difficile, più rischioso. Non è una parola – una soltanto, la più privilegiata – quella che scompare sotto l’inchiostro. Ma dieci, venti, centomila parole. Tutto un libro cancellato dalla misericordia. Cancellato per prevenire chi vorrebbe e potrebbe bruciarlo in un nuovo olocausto della memoria e della cultura.
Io conoscevo questo libro, ma l’ho dimenticato.
Non è stato un cervello elettronico a cancellarlo: né europeo né asiatico né americano.
È stata la mia mano infallibilmente guidata da una mente africana.
In questo libro non è facile leggere. Ma certamente non è proibito. Se si vuole, infatti, non è difficile cogliere sette parole tutte minuscole e tutte importanti:

capito sia che stesse accadendo un altro.