Il nostro è un mondo talmente pieno di memorie che inesorabilmente, per mancanza di spazio, vanno in gran parte perdute. A partire dalla modernità, questo è un problema che riguarda sia l’individuo che la società. Nella letteratura e nelle arti visive la memoria è quasi sempre associata allo spazio e alla figura particolare dell’archeologo. Un archeologo che lavora attraverso testi od opere d’arte che finiscono per somigliare ad oggetti smarriti.
Come aveva intuito il più grande cacciatore di fantasmi del 900, Sigmund Freud, la questione riguarda la geografia e l’identità (di chi sono questi oggetti?).
L’arte contemporanea non ha fornito risposte ma procedimenti e racconti essenziali per comprendere la trasformazione dell’idea stessa di memoria. Naturalmente la crisi della memoria, nelle sue forme convenzionali, ha origine nelle esperienze artistiche e sociali della modernità.
Il montaggio, la pratica del palinsesto, la smaterializzazione e l’utilizzazione di materiali d’uso comune o persino banali (lo stesso Benjamin collezionava e analizzava cartoline illustrate per le sue enciclopedie frammentarie), sono tutti processi legati ad una sorta di ricostruzione archeologica di uno spazio o di un corpo.
Se si eccettuano i rari monumenti pubblici in memoriam (tutti inesorabilmente votati alla discussione e alla controversia) le arti visive contemporanee sembrano essere tutte destinate a raccontare memorie differenti, ad occupare spazi vuoti o dismessi o a ripensare le pratiche scientifiche di conservazione museale o archiviazione (con particolare attenzione alle scienze naturali).
Il titolo del saggio scritto da Giovanni Iovane e Filipa Ramos nasce dalla memoria di 2 luoghi tipici della contemporaneità: l’ufficio degli oggetti smarriti (si pensi al gigantesco Bureau di Parigi, con migliaia di reperti) e il cartello Lost & Found che campeggia nella sala di ritiro bagagli di qualsiasi aeroporto che si rispetti. Una immagine e una metafora aderenti alla crisi della memoria nell’arte contemporanea.